Il risotto.
Quello cremoso, all’onda si dice. Pieno di amido e mantecato rigorosamente con il burro!
Sono nata a Vicenza ma le origini sono veronesi e per i veronesi il risotto è uno dei punti cardinali della cucina (insieme alla pearà, love).
Quindi la domenica a pranzo, a casa mia, il risotto imperava: si faceva il brodo, si preparava il risotto e poi si mangiava la carne lessa (se andava bene con la pearà appunto).
Si chiudeva con la torta.
Ma di tutto quanto il risotto era il re.
Un classico nostro era quello al pomodoro, con la passata fatta in casa e un soffritto di cipolla. Ma poi c’era quello ai funghi e quello con lo zafferano. Più raramente con la carne.
Il risotto ha quel potere lì che a mio avviso la pasta non ha: il risotto avvolge. Non è solo che ti scalda, ti avvolge proprio e ti porta via.
A me porta nella cucinina di mia nonna Maria, dove però ai fornelli c’era il nonno quando c’era da fare il risotto. Avevo 4 o 5 anni.
Non è stato facile avere il permesso di farlo io, che il risotto non è mica una cosa che possono fare tutti.
Però poi ci sono arrivata.
Avevo 14 anni. Ed era un rito.
Il risotto era quella cosa che facevo lentamente.
Piano.
Così piano che pure mio papà veniva a controllare severo (la sua era fame e un po’ di diffidenza).
Lo cacciavo e continuavo lenta, assaggiando più spesso di quel che si conviene.
Lentamente, amidosamente.
Poi ho smesso di farlo.
E si spiegano tante cose.
Oggi il risotto migliore mi viene con la planetaria (giuro, riesce una bomba).
E si spiegano altre cose.
Per due mesi devo astenermi dal glutine, che per me è come astenermi dal correre, dal parlare, dal fare cose… drammatico insomma!
Potrei farmi un risotto.
Potrei farlo nella pentola di rame.
Potrei metterci la passata di pomodoro di mia mamma.
Potrei mescolare lentamente sorseggiando del vino (se il vino contiene glutine non ditemelo!).
Potrei farmi avvolgere e andarmene a letto avendo prima pulito per bene la cucina, ovvio.
Ieri ho fatto un corso, che non è un corso di scrittura ma un corso per la scrittura.
E oggi ho scritto del risotto.
E di altro, un po’ a caso e un po’ no.
Lascianca sarà fiera di me.
Io lo sono.
Ieri ho scoperto la bellezza delle liste,
ho scritto tantissimo (a mano) che sento ancora la contrattura della schiena,
ho ammesso cose,
ho guardato – sbavando – chi mangiava la pizza al tegamino (c’è solo a Torino ed è buonissima),
ho sperimentato che posso scrivere qualsiasi cosa in qualsiasi momento,
ho rivisto due delle mie migliori amiche,
ho camminato,
ho pianto,
ho ritrovato la felicità di fare qualcosa solo per me,
ho scritto,
ho letto,
ho ascoltato,
ho scritto, e poi ho scritto e ancora ho scritto, scritto, scritto, fino a sentire male.
E oggi ho scritto.
Qui, di nuovo.
Mi sono meritata il risotto stasera.
E di riprendere le piccole cose, quelle che avvolgono, quelle che ho smesso di fare senza sapere perché. Tipo scrivere qui.
Perché è diventato più importante, più urgente, più fondamentale fare altro… ma non è vero.
Anche tu hai piccole cose non più fatte?
Quelle che lo sai, ti fanno bene, ma serve un po’ di coraggio a riprenderle…
Il coraggio è affrontare le paure si diceva ieri al corso.
Anche la paura di sbagliare, di non essere più capace.
Il coraggio di allentare le aspettative.
Magari mi verrà un risotto poco cremoso, lo mangerò lo stesso.
E tu?
La foto di copertina è una foto d’archivio, la ricetta di quel risotto lì la trovate qui ed è strepitosa!